venerdì 30 settembre 2011

Una pausa. Mi ci vuole una pausa.


Caro Federico,
e di questo “caro” penso non ci sia nulla di più sincero.
Non so se domani ti darò questa presente, ti riferirò a parole e lacrime il suo contenuto o non troverò il coraggio di fare nulla di ciò giacché avrò trascorso dei bei momenti con te. Ma, certo, queste righe di sconforto saranno leggibili dal mondo sul mio blog (e come sempre non lette da persona).
Sono convinta del fatto che mi serva una pausa da “noi”. Ma non perché io non sia più innamorata di te, anzi, credo di non aver mai amato così un uomo. È proprio paradossalmente questo. A me, persona dai problemi inesistenti, capita di non poter realizzare pienamente quello che sento nei tuoi confronti. Ed alla base di questa riflessione c’è la constatazione del tempo passato insieme, della sua durata. Ad attenta analisi le mie stronzate, abbastanza inconsce, sull’adozione riconducono a lì.
Sto tanto bene con te, ogni volta, a prescindere da stanchezza o lune varie che oggi non ho intenzione di manifestarti per non disfare quello che abbiamo costruito e per non toglierti le soddisfazioni che ti meriti in ogni istante visto che sei, anche grazie a te stesso, davvero una bella persona.
Ma io non conosco sentimentalmente persone unicamente per passarci bene alla meglio due mezze serate a settimana a bere tagli in posti vari ed eventuali. Per me l’essenza dell’amore non è la gratuità, o la passione, o cos’altro: a mio avviso è la condivisione totale, è il fatto che con quella persona ci passeresti tutta la vita nella totalità dei suoi aspetti. So che bisogna dare tempo al tempo, e che i tempi delle persone sono diversi, e che tu hai un altro passato, e che le possibilità sono quelle che sono. Quelle che sono sono però, e un po’ le creiamo noi.
Ci sono un sacco di cose che vorrei dalla persona che amo e un sacco di cose che vorrei fare insieme a lei: penso che tu concorderai con me nel ritenere che questo secondo “sacco” nel nostro caso sia ancora pieno, e soprattutto perché non gli leviamo mai nulla. E non parlo certo di attici vari eh!
Tempo al tempo, ma io come faccio a capire se sei quello giusto per la condivisione totale? Siamo stati insieme a Vienna: lunatica, ho fatto/avuto/permesso una stronzata che probabilmente non mi perdonerò fino al nostro prossimo “fare qualcosa insieme” e ho passato i successivi, pochi giorni a tentare di rimediare, con la spada di Damocle della fine vacanza che incombeva minacciosa sulla mia fronte. E ciò, sia chiaro, non significa che non sia stata bene, per carità, solo avevo aspettative migliori.
Tempo al tempo, ma io come faccio a capire se sei quello giusto per la condivisione totale?
Non lo so, forse tu hai ancora mezzi e indici per accertarti di fatti, caratteristiche, plausibili sentimenti in queste condizioni, io li ho già esauriti e mi sono condannata per quanto tempo a soffrire la mancanza e a rimanere un po’ male ogni volta che si posticipa un appuntamento anche solo di trenta minuti..?
Non lo so, forse anche tu hai esaurito i mezzi e gli indici per queste condizioni, e allora mi ami in un modo che per una parte (seppur piccola, sussistente parte) è differente dal modo in cui vorrei essere amata. O se vuoi metterla in termini meno egoistici: è differente dal modo in cui dovrei essere amata per stare bene.
..Una pausa. E allora forse mi ci vuole una pausa. Una pausa semplicemente per capire quanto tempo (quel tempo prezioso e malvagio che rincorro dalla mattina alla sera) io possa ancora concederci per “conoscerci meglio”, per quanto di quel tempo possa ancora aspettare ritrovandomi talora sottilmente insoddisfatta e sofferente. E una pausa per capire quale ruolo possa avere quella “seppur piccola parte” in un ipotetico diagramma costi-benefici. Tutto ciò penso di poterlo capire in un breve periodo, anestetizzando il cuore e illuminando la ragione.
Una pausa. È vero che mi servirebbe una pausa anche da tutto il resto. Ma non posso smettere di vivere per un po’ e poi tornare alla vita. D’altronde quello è riuscito, drammaticamente, soltanto a Giulietta.


E chiaramente non ho più fatto nulla e a rileggere questi pensieri mi paiono veramente stupidi. Ma anche ben messi.

martedì 13 settembre 2011

"Avete mai amato così tanto da condannare voi stessi all'inferno, per l'eternità..?"


Quella notte di Capodanno è stata fottutamente la cosa più bella che mi sia capitata. O forse lo è stata Lui.
Ma ora è un periodaccio: il nonno che ha i globuli bianchi disperatamente troppo alti, al fratello non funziona il ginocchio e sta diventando dipendente dalla doccia che gli hanno affibbiato, la cugina ritrovata a terra, priva di sensi, dopo una crisi epilettica, dei genitori che mi vogliono bene ma con cui non riesco ad avere una comunicazione trasparente, esami da fare, lauree in ballo, stress, poche certezze, lune incomprensibili e troppo frequenti, e Lui, Lui non riesco a farlo felice. Normale, direi, che io non lo sia di conseguenza.
Lui che mi rivolge un sorriso stupendo dal(lo) (s)fondo (del desktop), Lui che mi vuole bene e questo «non devi dimenticarlo mai», Lui con cui non ho mai litigato, tutt’al più parlato, Lui che Romeo and Juliet, Dire Straits, Lui che, andandosene a casa, non ha dimenticato nulla: solo lasciato un pezzetto del suo cuore.
Ed io: dovunque mi giri, finisco con lo sbattere la testa contro muri e porte chiuse. E non sono più capace di drogarmi per non sentire il dolore, e quindi andare avanti imperterrita con i miei programmi.
A poco valgono i bei ricordi. Ora c’è solo un pianto infinito. Mai pianto così intensamente per una persona e per un “noi” che percepisco pericolosamente in bilico. Mai pianto dopo aver pianto, e ancora pianto, e nuovamente solo voglia di piangere, non certo una sensazione di piacevole svuotamento. Vorrei che piovesse per andare in giro a testa alta col volto rigato di lacrime, seguendo una strada ignota e le parole di Hendrix. Magra consolazione forse. E magra consolazione forse che «one year of love is better than a lifetime alone».
Ma continua a valerne la pena. Per me.

One year of love, Queen. Sto innaffiando il pezzettino di cuore che mi hai lasciato nella speranza che fiorisca. A lui, come al mio, tuttavia, non piace il sale mi sa.

Spalle al muro


Seduta sul letto, spalle al muro, due ore e mezza di sonno che mi fanno pesare la testa più del mondo su Atlante. Sì, meditavo di andare a dormire. Ma qualche pensiero mi balena in testa e mi scopro qui a digitare altre insulse parole di stress-rabbia-tristezza – e forse una puntina di disperazione inammissibile.

Ho capito cosa significhi non poter fare del male a una persona senza patirne irrimediabilmente. A ventun anni. Ma l’ho capito ed è qualcosa. È un doloroso punto di partenza per mettersi in gioco, e un’ottima occasione per rischiare con testa e cuore, e accettare l’eventualità (non poi così remota) di un pugno allo stomaco che all’improvviso di fa vomitare di schifo ciò con cui ti sei goffamente saziata per anni. Per poi lasciarti lì, stremata e sola, col terrore di fare/farti ancora male e l’esiziale orgoglio di averlo fatto.

Ti rifugi, forse più che altro da te stessa, dietro giustificazioni perfettamente razionali, che poco servono nel momento in cui è il cor a prendere il timone di quella barca che a vele stracciate vaga senza senso, apprezzando la struggente bellezza del mare che la rovinerà. Spiegazioni incomprensibili anche a chi ti vuole ascoltare, perché effettivamente un po’ meglio potevi fare, oggettivamente e nonostante tutto.

Persone senza soddisfazioni. Individui anonimi che vivono i loro giorni nell’amara delusione di non vedersi sempre felici. Destinati a sperare per sempre.
Ma queste sono solo menzogne: parole vane, fuochi fatui in una cimiteriale atmosfera autunnale che sa di umido e di passato.
Persone a cui invidi di essersi saputi trovare le proprie soddisfazioni, di avere ancora la forza di “sperare disperatamente” con tutta l’anima, e di dispiacersi ragionevolmente dell’ingiusto corso di eventi.

Spalle al muro perché quelle stanno bene lì: sostenute da una labile quanto inutile protezione, un tanto ricurve in avanti a sopportare il greve macigno della vita vera in cui l’inesorabilmente fermo orologio di Hesse segna l’ora giusta troppo poco spesso.

Due ore e mezza di sonno, e comunque queste parole qui perché, evidentemente, te ne frega abbastanza. Di quel piccolo e grande uomo cui ti avvicini sempre più e da cui ti scopri talora irrimediabilmente più lontana.

Uh?
No, penso non si tratti della deriva.