giovedì 20 ottobre 2011

Posso dirvi una cosa? Il sid per molti versi fa abbastanza schifo.


Fa abbastanza schifo perché ci sono miriadi di studenti per i quali la più grande soddisfazione è prendere una lode, miriadi di persone per le quali le relazioni sociali s’inseriscono unicamente nell’ottica dell’utile.
Fa abbastanza schifo perché le poche persone capaci e sincere che escono dal sid, ne escono in quel modo perché in quel modo ci sono entrate.
Fa abbastanza schifo perché la prima cosa che ti dicono quando vieni eletto rappresentante degli studenti è che faresti bene ad iscriverti all’assid.
Fa abbastanza schifo perché i buchi di fondi da migliaia di euro di qualche associazione li copre il direttivo di tasca propria, lo stesso direttivo che ha approvato progetti impossibili senza cognizione di causa – e ne approva ancora nella speranza di rientrare in patta.
Fa abbastanza schifo perché c’è gente montata che si sente diversa e migliore, e si prospetta un futuro diplomatico roseo, al primo colpo, fatto di grandi aperitivi, occasioni piacevoli e poca fatica.
Fa abbastanza schifo perché a fomentare questo sistema degenere collabora anche il Sommo Seggio che illude anime quasi innocenti nel decantare la grandezza – perché non dirlo a chiare lettere? PASSATA – di questo corso di laurea, anche ora che i fondi non ci sono più per nulla e si licenziano gli insegnanti migliori.
Fa abbastanza schifo perché in pochi mesi ha ammazzato i miei sogni di diciottenne: quei sogni di voler costruire in prima persona un mondo migliore, al posto di quei tanti scellerati che ci stanno rovinando esizialmente.
Ma per chi? Per nessuno: oggigiorno non ne vale la pena per nessuno perché l’omertà, la nullità, la mediocrità dilagano. E chi ne è esente, invece, si fa da sé e fa da sé.

Quel che mi resta?
Nostalgia dell’ambiente del conservatorio triestino, fatto di persone vere e vive, che vibrano in tutto il corpo quando si emozionano con il loro strumento in nome di un’autenticità indicibile e perduta che qualcuno ha chiamato “arte” (che purtroppo non dà pane, ragion per cui mi trovo qui).
E quell’anarchismo non anarchico che lega profondamente Baudelaire e Jünger e pochi altri.

venerdì 30 settembre 2011

Una pausa. Mi ci vuole una pausa.


Caro Federico,
e di questo “caro” penso non ci sia nulla di più sincero.
Non so se domani ti darò questa presente, ti riferirò a parole e lacrime il suo contenuto o non troverò il coraggio di fare nulla di ciò giacché avrò trascorso dei bei momenti con te. Ma, certo, queste righe di sconforto saranno leggibili dal mondo sul mio blog (e come sempre non lette da persona).
Sono convinta del fatto che mi serva una pausa da “noi”. Ma non perché io non sia più innamorata di te, anzi, credo di non aver mai amato così un uomo. È proprio paradossalmente questo. A me, persona dai problemi inesistenti, capita di non poter realizzare pienamente quello che sento nei tuoi confronti. Ed alla base di questa riflessione c’è la constatazione del tempo passato insieme, della sua durata. Ad attenta analisi le mie stronzate, abbastanza inconsce, sull’adozione riconducono a lì.
Sto tanto bene con te, ogni volta, a prescindere da stanchezza o lune varie che oggi non ho intenzione di manifestarti per non disfare quello che abbiamo costruito e per non toglierti le soddisfazioni che ti meriti in ogni istante visto che sei, anche grazie a te stesso, davvero una bella persona.
Ma io non conosco sentimentalmente persone unicamente per passarci bene alla meglio due mezze serate a settimana a bere tagli in posti vari ed eventuali. Per me l’essenza dell’amore non è la gratuità, o la passione, o cos’altro: a mio avviso è la condivisione totale, è il fatto che con quella persona ci passeresti tutta la vita nella totalità dei suoi aspetti. So che bisogna dare tempo al tempo, e che i tempi delle persone sono diversi, e che tu hai un altro passato, e che le possibilità sono quelle che sono. Quelle che sono sono però, e un po’ le creiamo noi.
Ci sono un sacco di cose che vorrei dalla persona che amo e un sacco di cose che vorrei fare insieme a lei: penso che tu concorderai con me nel ritenere che questo secondo “sacco” nel nostro caso sia ancora pieno, e soprattutto perché non gli leviamo mai nulla. E non parlo certo di attici vari eh!
Tempo al tempo, ma io come faccio a capire se sei quello giusto per la condivisione totale? Siamo stati insieme a Vienna: lunatica, ho fatto/avuto/permesso una stronzata che probabilmente non mi perdonerò fino al nostro prossimo “fare qualcosa insieme” e ho passato i successivi, pochi giorni a tentare di rimediare, con la spada di Damocle della fine vacanza che incombeva minacciosa sulla mia fronte. E ciò, sia chiaro, non significa che non sia stata bene, per carità, solo avevo aspettative migliori.
Tempo al tempo, ma io come faccio a capire se sei quello giusto per la condivisione totale?
Non lo so, forse tu hai ancora mezzi e indici per accertarti di fatti, caratteristiche, plausibili sentimenti in queste condizioni, io li ho già esauriti e mi sono condannata per quanto tempo a soffrire la mancanza e a rimanere un po’ male ogni volta che si posticipa un appuntamento anche solo di trenta minuti..?
Non lo so, forse anche tu hai esaurito i mezzi e gli indici per queste condizioni, e allora mi ami in un modo che per una parte (seppur piccola, sussistente parte) è differente dal modo in cui vorrei essere amata. O se vuoi metterla in termini meno egoistici: è differente dal modo in cui dovrei essere amata per stare bene.
..Una pausa. E allora forse mi ci vuole una pausa. Una pausa semplicemente per capire quanto tempo (quel tempo prezioso e malvagio che rincorro dalla mattina alla sera) io possa ancora concederci per “conoscerci meglio”, per quanto di quel tempo possa ancora aspettare ritrovandomi talora sottilmente insoddisfatta e sofferente. E una pausa per capire quale ruolo possa avere quella “seppur piccola parte” in un ipotetico diagramma costi-benefici. Tutto ciò penso di poterlo capire in un breve periodo, anestetizzando il cuore e illuminando la ragione.
Una pausa. È vero che mi servirebbe una pausa anche da tutto il resto. Ma non posso smettere di vivere per un po’ e poi tornare alla vita. D’altronde quello è riuscito, drammaticamente, soltanto a Giulietta.


E chiaramente non ho più fatto nulla e a rileggere questi pensieri mi paiono veramente stupidi. Ma anche ben messi.

martedì 13 settembre 2011

"Avete mai amato così tanto da condannare voi stessi all'inferno, per l'eternità..?"


Quella notte di Capodanno è stata fottutamente la cosa più bella che mi sia capitata. O forse lo è stata Lui.
Ma ora è un periodaccio: il nonno che ha i globuli bianchi disperatamente troppo alti, al fratello non funziona il ginocchio e sta diventando dipendente dalla doccia che gli hanno affibbiato, la cugina ritrovata a terra, priva di sensi, dopo una crisi epilettica, dei genitori che mi vogliono bene ma con cui non riesco ad avere una comunicazione trasparente, esami da fare, lauree in ballo, stress, poche certezze, lune incomprensibili e troppo frequenti, e Lui, Lui non riesco a farlo felice. Normale, direi, che io non lo sia di conseguenza.
Lui che mi rivolge un sorriso stupendo dal(lo) (s)fondo (del desktop), Lui che mi vuole bene e questo «non devi dimenticarlo mai», Lui con cui non ho mai litigato, tutt’al più parlato, Lui che Romeo and Juliet, Dire Straits, Lui che, andandosene a casa, non ha dimenticato nulla: solo lasciato un pezzetto del suo cuore.
Ed io: dovunque mi giri, finisco con lo sbattere la testa contro muri e porte chiuse. E non sono più capace di drogarmi per non sentire il dolore, e quindi andare avanti imperterrita con i miei programmi.
A poco valgono i bei ricordi. Ora c’è solo un pianto infinito. Mai pianto così intensamente per una persona e per un “noi” che percepisco pericolosamente in bilico. Mai pianto dopo aver pianto, e ancora pianto, e nuovamente solo voglia di piangere, non certo una sensazione di piacevole svuotamento. Vorrei che piovesse per andare in giro a testa alta col volto rigato di lacrime, seguendo una strada ignota e le parole di Hendrix. Magra consolazione forse. E magra consolazione forse che «one year of love is better than a lifetime alone».
Ma continua a valerne la pena. Per me.

One year of love, Queen. Sto innaffiando il pezzettino di cuore che mi hai lasciato nella speranza che fiorisca. A lui, come al mio, tuttavia, non piace il sale mi sa.

Spalle al muro


Seduta sul letto, spalle al muro, due ore e mezza di sonno che mi fanno pesare la testa più del mondo su Atlante. Sì, meditavo di andare a dormire. Ma qualche pensiero mi balena in testa e mi scopro qui a digitare altre insulse parole di stress-rabbia-tristezza – e forse una puntina di disperazione inammissibile.

Ho capito cosa significhi non poter fare del male a una persona senza patirne irrimediabilmente. A ventun anni. Ma l’ho capito ed è qualcosa. È un doloroso punto di partenza per mettersi in gioco, e un’ottima occasione per rischiare con testa e cuore, e accettare l’eventualità (non poi così remota) di un pugno allo stomaco che all’improvviso di fa vomitare di schifo ciò con cui ti sei goffamente saziata per anni. Per poi lasciarti lì, stremata e sola, col terrore di fare/farti ancora male e l’esiziale orgoglio di averlo fatto.

Ti rifugi, forse più che altro da te stessa, dietro giustificazioni perfettamente razionali, che poco servono nel momento in cui è il cor a prendere il timone di quella barca che a vele stracciate vaga senza senso, apprezzando la struggente bellezza del mare che la rovinerà. Spiegazioni incomprensibili anche a chi ti vuole ascoltare, perché effettivamente un po’ meglio potevi fare, oggettivamente e nonostante tutto.

Persone senza soddisfazioni. Individui anonimi che vivono i loro giorni nell’amara delusione di non vedersi sempre felici. Destinati a sperare per sempre.
Ma queste sono solo menzogne: parole vane, fuochi fatui in una cimiteriale atmosfera autunnale che sa di umido e di passato.
Persone a cui invidi di essersi saputi trovare le proprie soddisfazioni, di avere ancora la forza di “sperare disperatamente” con tutta l’anima, e di dispiacersi ragionevolmente dell’ingiusto corso di eventi.

Spalle al muro perché quelle stanno bene lì: sostenute da una labile quanto inutile protezione, un tanto ricurve in avanti a sopportare il greve macigno della vita vera in cui l’inesorabilmente fermo orologio di Hesse segna l’ora giusta troppo poco spesso.

Due ore e mezza di sonno, e comunque queste parole qui perché, evidentemente, te ne frega abbastanza. Di quel piccolo e grande uomo cui ti avvicini sempre più e da cui ti scopri talora irrimediabilmente più lontana.

Uh?
No, penso non si tratti della deriva.

domenica 12 giugno 2011

Così è deliberato.


Ho deciso che d’ora in avanti ci saranno un po’ di più note di contentezza in questa specie di cosa che vado via via scrivendo – sia essa un diario o un semplice conglomerato di pagine e pensieri.

Ho deciso che è giunto il momento di farsi qualche idea seria su un mio plausibile futuro. Me ne sono già fatta qualcuna, quindi, un po’ improbabile e rischiosa, ma anche fottutamente accattivante.

Ho deciso di confermare la mia lotta contro una certa retorica barocca priva di significato. Di proseguire, invece, quella in favore delle parole pregne di contenuto – anche ornate di un po’ di Bellezza, che in fondo rende meno opprimente un universo spesso di non senso.

Ho deciso che domani mi metterò a studiare seriamente Storia delle Relazioni Internazionali, perché è ora e, nonostante tutto, mi piace.

Ho deciso che comunque vada l’esame di quartetto, mi farò bastare qualche piccola certezza: che io mi sono disimpegnata e impegnata, seccata e divertita, che ho sognato in quel Notturno quanto in Thais, che mi sono stupita di quanto potessi non stravedere per Mozart per una volta almeno, che sono sicura proprio del tutto di come siamo tutti persone prima che musicisti o artisti...

Ho deciso che devo smetterla di pensare a persone che non vedo da tempo: meglio sentirle e/o vederle. Certe mi mancano. Altre, il tempo mi ha insegnato, possono essere dimenticate. Ma quanto sono amare queste parole – e non soltanto al pensiero che per qualcuno io lo possa esser stata...

Ho deciso con chi trascorrerò le mie ferie, per quante poche esse possano essere. E mi piacerebbe trascorrerci non solo ferie. Perché, quando qualcosa è, bisogna prenderne atto.

Ho deciso che all’imminente referendum esprimerò la mia opinione con giudizio, mentre dalla prossima volta che mi recherò ai seggi per elezioni politiche farò tutto abbastanza spensieratamente poiché mi sta a cuore più la sostanza che l’apparenza del mondo. E che comunque, per correttezza personale, resterò fedele a chi ho promesso fedeltà se costui resta fedele a se stesso.

Ho deciso che non mi perderò più ad ascoltare ansiosamente il battere cardiaco del Tempo, a contemplare un chiaroscuro in cui luce e sogno si confondono, o a piangere le grandi idee che, sgorgate dal cuore, naufragano nel mondo.

Ho deciso: ce la posso fare a vivere libera da tutte le parti, mantenendo comunque la possibilità di girarmi da qualsiasi parte, libera da ogni interesse particolare, ma non disinteressata. Perché la Libertà ha le stesse infinite sfaccettature di un diamante – come esso bella, dura, luccicante, tagliente, e preziosa.

Come stanno veramente le cose


Le cose stanno veramente che la gente ha perso il gusto della vita. Nulla conta più niente. Sono tutti stufi di se stessi quanto io sono stufa di sentire i racconti di mia madre sul reparto di ostetricia dove lavora: racconti su tutta quella carne che ha da poco trovato la vita, su tutta quella vita che in poco si tramuterà in odio, ipocrisia, stupidità, menefreghismo totale, in nulla.
Penso che sia per questo che io ho un problema con “loro”.
Il problema è vedersi tolta la libertà – pure quella di sognare (illegale l’LSD per chi ne ha bisogno per farlo). Il problema è il governo, il cinese che ti fa sempre storie, la pubblicità televisiva, è quel ragazzo che ti perseguita, quel professore che parlava di politica invece d’insegnarti qualcosa di vero. Il problema è che è tutto una merda, e più mescoli e più puzza.
Il problema è che hai un naso grande e storto e che hai qualche chilo di troppo ma non una quarta quando a te hanno detto che quelle così sono brutte, è che non sai vestire, fumi troppo e che te ne frega qualcosa di qualcosa (e forse non sai nemmeno cosa). Il problema è che i più vedono soltanto i lati negativi di apparente narcisismo ed egoismo, è che detesti i condizionali, che odi i Testimoni di Geova e gli Israeliani convinti, è che non credi a Babbo Natale, e vorresti sputare in faccia ai camerieri scortesi, a chiunque incarni Bobby Brown e a Catholic Girls varie ed eventuali. Il problema è che non fai volare un aquilone da 13 anni, è che hai pianto ascoltando la solitudine di Schubert, è che pensi troppo e sorridi troppo poco, che stai bene con gli anarchi e vivi in una comunità di squali, e non hai scopo qui perché forse è ormai troppo tardi per tutto.
Il problema è che la vita non dovrebbe essere un problema da risolvere ma un istante da vivere.

Identikit


NOME: Mila
COGNOME: Grando
SOPRANNOME: vari: Miluz, Miletta, Milette, Milhouse, Miloskj, Milona, ecc.
ETA’: parametro in costante aggiornamento
SESSO: femminile, con tratti caratteriali parzialmente maschili
STATO CONIUGALE: sposata con Silvia Pisana Reinotti, innamorata di persone che non esistono o che non esistono più come Charles Baudelaire e Corto Maltese
CITTADINANZA: italiana con aspirazioni europeiste e apolidi
PENSIERO POLITICO: «la vita è troppo bella per essere sacrificata a delle idee»
RELIGIONE: nessuna
CODICE COMPORTAMENTALE: etica, e amoralità dalle tendenze estetizzanti
COLORE PREFERITO: grigio “Blade Runner”
PROFESSIONE: né poeta né studente, diplomatico poco convinto e violinista mediocre
ASPETTO: trascurato nel 98% delle occasioni
SEGNI PARTICOLARI: callo dal colore rossastro sulla parte sinistra del collo, proprio sotto la mandibola; alito da fumatrice; cicatrici periodicamente aggiornate sul polso sinistro
ELEMENTI CARATTERIALI SALIENTI: essere sostanzialmente triste, con propensioni egoistiche (ma tuttavia di facile imbarazzo)
VIZI: accidia, predisposizione hessiana al suicidio
VIRTU’: si veda la voce “vizi”
RAGIONE: propensa al ragionamento filosofico teorico e, altresì, al problem solving
CUORE: frantumato non da uomini ma da dicotomie esistenziali, in realtà sciolto dalla Bellezza: tali lacrime si trovano ora in alcune città europee oltre che sulle note di qualche melodia che canta il grido dell’umano dolore

D'altronde qui l'accidia è di casa...


E dopo due settimane di vacanze, nuovamente a Trieste per la vita di sempre: lezioni, prove, tè serali, niente streaming ma partite a Prato Fiorito, libri e qualche pagina di “diario”.
Qualcuno in più con cui messaggiare e a cui chiedere come sta.
Una stretta alla gola nel ricordare i giorni di libertà soffocata con cui si è concluso l’anno vecchio e con cui è iniziato quello nuovo.
Un sorriso nel ricordare le care compagne di Capodanno.
Uno sbadiglio nel ricordare le nottate di Amici Miei.
Una deglutizione forzata nel ricordare il ciao mancato al mio “parente più stretto”.
Ma la stessa musica, la stessa colonna sonora per la mia vita in quella stessa Trieste che abbandonai l’anno scorso con un po’ di malinconia.
Perennemente umida, mi ha accolto con quella nebbia densa che, inalata, appesantisce la realtà e uccide ogni sogno. La ho trovata nuovamente in bilico, abbarbicata su superfici solo apparentemente stabili, in realtà situate nell’equilibrio precario che è la sostanza ultima di ogni vita. Come sempre in bilico tra cielo e terra e tra terra e mare, tra grigio e blu, tra ieri e oggi e tra oggi e domani, tra Austria e Adriatico, Italia e Slovenia, tra selezione e discriminazione, tra evasione e vita, tra finitezza ed infinito, tra un singhiozzo e un rutto, tra rabbia e disperazione, amore e lutto...
Il dubbio: questa è Trieste o piuttosto sono io?

venerdì 1 aprile 2011

Lacrime sottili


Non ricordo esattamente neppure a cosa pensavo in quei momenti di lacrime e di piacere. Era tutto così bello, era proprio come diceva un uomo del mio passato: «un sorriso con una lacrima». Aveva ragione. Forse non su quel punto soltanto, su quel punto sicuramente.
Era tutto così bello che non capisco come io ora mi ritrovi qui con qualche velleitaria pretesa di tradurre in parole le scie umidicce lasciate da gocce di pianto sulla mia pelle pallida. Oppure il sorriso senza fiato, stremato dallo sforzo richiesto per inseguire quella specie di fantasma che qualcuno ha deciso di chiamare “felicità”. O, ancora, il brillare dei tuoi occhi in cui si perdevano i miei, inondati da un mare dal fondo amaro.
Era tutto così bello che non c’era alcun bisogno di sognare, c’era soltanto da vivere. Era tutto così bello che non pareva vero, visto che, di questi tempi, le cose belle fanno parte dei sogni e del mondo delle idee, ben poco della realtà.
Fare all’amore e piangere, ed ora, a pensarci, ricordare il when we made love, you used to cry di Romeo e Giulietta – un ossimoro per i miei muscoli facciali che avevano una certa difficoltà a supportare movimenti certamente diversi, forse, apparentemente, incompatibilmente contrastanti.
Era tutto così bello, puramente bello.
Ed ora che mi resta di tanta Bellezza? Come di un sogno, soltanto una sensazione di dolcezza nell’abbracciare il cuscino o il tuo corpo, un sorriso nel pensarti, un certo agio nel guardarti, e un po’ di malinconia nel riprecipitare in quella banale spirale che è la mia (s)travolgente vita quotidiana, fatta di sete e acqua salata.

venerdì 25 marzo 2011

Scrivo

Scrivo quando sto male.

Scrivo quando non mi resta che ascoltare Tears and Rain di James Blunt per vedere tutto un po’ più grigio e un po’ meno nero.

Scrivo per disperazione.

Scrivo, e le mie lacrime sono l’inchiostro per queste parole.

Scrivo perché stasera non posso dormire tranquilla.

Scrivo negli attimi in cui capisco la profondità ultima di 4 What might have been di Mike Stern.

Scrivo, e la voglia di alcool e sangue -il mio- sovrasta ogni altro desiderio.

Scrivo quando esiste soltanto un adesso di dolore.

Scrivo quando non esiste alcun domani, soltanto il prossimo esame o la prossima prova d’orchestra.

Scrivo quando, nonostante tutto, a nessuno importa di me.

Scrivo perché mi sono fatta male, da sola, come sempre: chi altro può farmene?

Scrivo, e una luce soltanto illumina le mie parole, attorno lo sporco buio dell’insoddisfazione e dell’ignoto inesplorabile, e una terribile luna arancione, mia insanguinata compagna.

Scrivo perché conosco la faticosa necessità di assumersi le proprie responsabilità di fronte a se stessi e agli altri.

Scrivo nella speranza che quel cellulare vibri e mi dica qualcosa di vero... ma è una macchina.

Scrivo mordendomi le labbra, le mani sudice in un treno come sempre troppo notturno.

Scrivo perché sono due fottuti giorni che non suono, e sto male.

Scrivo, inorridita dal mio sgarbato riflesso sul vetro oltre cui non si può gettare niente – neanche uno sguardo.

Scrivo, e non le bestemmie indefesse che la mia bocca vorrebbe rigurgitare, disgustata dal troppo dolente pensare e dai troppo numerosi caffè.

Scrivo parole e soltanto parole, narcisisticamente un po’ belle, che ho detto e che dirò, che scivolano su questo foglio quadrettato, vomito di un’anima che un giorno non le riconoscerà.

Scrivo l’ennesima pagina triste della mia vita e non me ne rendo conto.